Ci sono poche cose che sono sicuro abbiate pronunciato almeno una volta nella vita, e una di queste è sicuramente la frase:
“Come diavolo fa la gente a comprare un vestito o un oggetto che costa migliaia di euro solo per il marchio che porta?”
Non pensate di essere esenti da questo processo di marketing solo perché non rifornite il vostro guardaroba da Gucci: ognuno di voi si comporta, almeno in qualche ambito, in questo modo…Per caso in tasca hai un iPhone? Quali sono le variabili che contribuiscono a dare valore?
Il valore percepito
La Apple è stata una delle più importanti società in grado di fare leva sul valore percepito dal cliente per vendere milioni e milioni di prodotti, facendo sentire il cliente in possesso di un oggetto unico, in grado di giustificare il prezzo sensibilmente più alto dei concorrenti, e parte di un mondo esclusivo, destinato solo ai possessori dei device con la Mela.
Ed eccoci arrivati al fulcro della questione. Vediamo innanzitutto cosa si intende per valore percepito dal cliente. Philip Kotler, padre putativo del marketing, lo definisce come:
La differenza tra la valutazione prospettica di tutti i benefici e i costi di un’offerta e quelli delle alternative percepite” (Kotler, 2010). Abbiamo quindi due fattori fondamentali nella determinazione del valore per il cliente.
Il primo è il confronto tra i benefici offerti e il costo che dobbiamo sostenere nell’acquisto: ricordiamo che benefici e costi non hanno unicamente natura monetaria e tangibile. Qual è l’altra faccia della medaglia?
Valori e bisogni
Il riferimento per identificare i bisogni di ogni essere umano rimane sempre la famosa piramide di Maslow, che pone nel gradino più basso i bisogni primari (sonno, fame, sete…), per poi salire sempre di più toccando quelli di sicurezza, sociali, di stima e di autorealizzazione nel vertice della piramide.
È evidente che i prodotti generici (le commodities) si occupano di soddisfare i bisogni primari, mentre quelli che vogliono puntare su un prezzo più alto devono giustificarlo sfruttando i bisogni più alti, soprattutto quelli di stima e appartenenza.
Sentirsi parte di un gruppo d’élite è la strategia che utilizzano tutti i brand del lusso, per soddisfare il bisogno di appartenenza del consumatore e trasformare il marchio in una famiglia.
La dissonanza cognitiva post acquisto
Un altro elemento particolarmente interessante del processo decisionale riguarda la cosiddetta dissonanza cognitiva post-acquisto: dopo aver speso una somma importante per un prodotto succede molto spesso che ci si metta a pensare se sia stata veramente la scelta giusta. A quel punto deve essere l’azienda ad attenuare la dissonanza, tramite iniziative per far sentire il cliente fiero e sempre parte di un’élite.
Nella definizione data prima da Kotler però c’è anche una seconda parte, che riguarda il confronto con i prodotti offerti dalle altre aziende. Il processo decisionale del consumatore è influenzato fortemente dalla concorrenza, e molto spesso sono le variabili intangibili a fare la differenza. Il consumatore è molto attento al valore del marchio inteso come il suo livello di affidabilità e a ciò che trasmette agli altri.
Tutto quello di cui abbiamo parlato quindi serve a dare un valore al prodotto che acquistiamo: la vera differenza tra un prodotto generico e uno associato a un brand è che quest’ultimo riesce a far leva su attributi intangibili, ma che svolgono un ruolo fondamentale nel processo decisionale dell’acquirente.
La prossima volta quindi che vi capiterà di scegliere un prodotto preferendolo alla concorrenza chiedetevi perché lo avete fatto: sarà un gioco interessante e vi farà comprendere meglio come ha funzionato il vostro processo decisionale.
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